Tuesday, October 23, 2018

PIETRO INGRAO



PIETRO INGRAO (1915-2015)

POESIE

FRATELLANZE

Fluttuando in alto alla luna, perduti
i codici,
ultimo su colline
di morti, m’abbracciavo
a frantumo di ramo

dolcemente scoprivo
fianchi, i seni, il morbido
cavo del ventre, non potrei dire
le palme e se c’era
un fiato, succhiando, ma il sonno, l’ombra,
la smisurata luce,
ostinato indagando scrutavo
le pesanti nodose palpebre
se di fronte a me
s’aprissero.


LA NOTTE

Il grande silenzio
delle rondini radenti
simili a bocche sigillate, allora che a piedi scalzi
invade il fianco l’oscuro, denudarsi,
splendere i muri
nell’opale.
Questi strani sposalizi di un istante.


PADRI E FIGLI

Bianco schiumare di vento
alle mie frontiere, come sei comando
e invocazione violenta.
Mi curvo al rombo dell’ira amorosa:
urla al frutto del suo ventre, strappa
vele al cielo, coltri
delle montagne.
Reclina
il capo furente. Grida.


IMPOSSIBILI

Sorpresi nell’aprirsi
della fame e della luce, infinito
d’uccelli schiudono labbri, ridono
sgomenti, cedono ali al nulla.


ANNUNCI

E scorgere che al tuo scomparire nulla
dell’onda sara’ sospeso, o infranto;
le mute stanze che solo attendono:
chi piu’ non ti scruta,
non esige piu’ nulla
gia’ t’ha abbandonato


TRANSITI (I)

Settembre sono questi cieli
il loro destino incerto
il fulgore morente
come s’aprono piano
le scogliere della luce
s’inumidiscono lembi
a dischiudere segni, come mai prima
s’incupiscono monti
lievi al nostro stupire.


DISORDINE, ORDINE

II crudo zampillo nella cruna
del lampo. Trovammo
fucili nella spianata, enormi
vessilli spenti…
Non potrai cancellare
il lacero sentiero
dove si scioglie la bruna
cantilena dell’autunno: strano, lungo
rossore che non fugge.


FUGGENTE OSPITE

Stringerla in pugno come,
l’ombra del crepuscolo.
O deporla senza polvere nella calma del computer. Forse
inghiottirla, deglutire lentamente
aspirando l’afrore, dove accecata dalla luce
sbanda e s’oscura,
le macchie mortali del transito
serrate nel midollo,
fuggente ospite
all’oscillare del nostro passo.


NESSUN DIO

E s’arravugliano semi,
s’alzano nel velo
di frantumi stellari,
grevi soffi nel brucare sottile di mondi:
cosi’ forme si distillano
nell’arso,
nessun dio le sa
stringere in pugno.


PER “TELLA”

II vento
e’ calmo al tramonto: puo’ prenderti in braccio,
sottile; i ceri, le carte, i trasporti sono soltanto
la rozza mano che sgombera
il tavolo. Il soffio irrequieto
delle tue scalinate
e’ l’incredibile
gremito stellare, la volta a vela. Ieri,
oggi?
Ritorni a questo lume.


SOLO

Solo contemplare l’onda:
senza invocare transito
o cibo: ospitarla
nella mente, senza frutto,
senza tentare alcuna costa,
ne’ alcuna schiuma
frangere. Non piu’ strumento:
leggere il mare.


TRANSITI (II)

Sembra un autunno
un inganno
un lume sedotto
curvo a stringere
il dubbio celato nell’ora,
abbandonato a lisciare l’inclinazione sospesa dove il capo splende nell’istante,
come una scala d’alberi
in declino,
un congedo che sosta.


INCONTRI

Non e’ chiaro le meduse che loro lingua,
lacrime, cupidigia,
non si vede quando ridono.
Il re e la regina. Fuggo all’invocarmi,
e conoscermi; o fuggono
me che fuggo, o scrutare
io il rigo che cinge, il silenzio
del loro fine,
la spenta corolla
l’iride che affonda


CALEMBOUR

E tutto – il suo tutto e’ consumato,
e si consuma, ancora
non essendo in midollo consumato: patendo
il consumarsi e sentirsi consumato,
l’oltre inesorabile, istante
del transito in nulla.
La morte severa come sembra staccarsi:
fuggire dalla terra: nascondersi per essere morte.


CRINIERA

S’abbracciano quiete
argentee solitudini, dove venti viola
cavalcano per stringere
la fuggente criniera dei defunti. Inseguendosi
volavano le braccia levate degli scomparsi,
la gola tesa
nel desiderio dell’impossibile canto: ne’ mai vocabolario
potra’ metterli in riga.


LAVORI

Come e’ penoso mangiare in cielo, e caldo i fianchi
inginocchiati sul computer
sporgersi alle vallate dei pensieri:
come roco stringere in pugno un raggio.


DOMANI, IERI

E nessuno t’inseguira’. Qualche lieve
bagliore. Tornano gli stormi
di ieri, incanutiti dalle nevi,
dall’ovest incrociano febbrili
il tuo cercare. Si vedono rare bandiere
calme. Altri scendono
negli scafi:
solo il chiamare lontano,
la madre, l’eterno
appello allo scendere della sera.
Poi si dira’ il nostro tempo. Da lontano
si smontera’ (alla fine) docilmente:
le obbligazioni di fili avvinti,
i burroni, gli aerei
cavalcavia, le ascisse. Si diranno
le tavole imbandite, il concime deserto.
E la successione nutrirsi del nostro fango.


OZI (I)

Non andrei in viaggio. I meli
quest’anno son grevi; il profumo si sparge
nella vallata come coltri di uccelli
distese. Oscilla
il pensiero. E nel buio apparire
i lunghi desideri.


RITMI

Cadono le luci del vento.
Cadono i reami.
Cadono i veli della mente
le mutilazioni inferte
cadono le macchie
i serrami delle prigioni
le cinture delle piazze.
Cadono i domani le selve dei desideri.
In frantumi
cadono le paludi di grattacieli
le pupille insonni.


LETTERA D’AMORE

Sei un riccio
una betulla
una fame d’erba
un rotolo nel controverso, una goccia
i tuoi stemmi mordicchiati
dallo sporgere nel debole
non giuri vittoria, non urli, ti lasci
cadere cercando;
quando abbracci digrigni i sottili denti.
Sotto il tuo pallore
nell’oscillare tra due olmi,
l’ansia che scavalca l’ordine,
l’abbandonarsi in mare.


CHIAMATA

C’e’ un rombo un’armata
un sordo rullo di tamburo
che avanza all’alba dal fondo
delle metropoli;
senza trombe ne’ squilli
dilaga il lungo
scalpiccio; lente, pesanti,
al suo scuro clamore
in alto si schiudono
le palpebre grevi delle serrande:
fugge il notturno sospirando,
s’alza l’alta febbre
del fare.


EDUCAZIONE SENTIMENTALE

II tintinnio delle catene
questo suono quieto:
ci accompagna
docile per mano,
e s’adatta ubbidiente
al nostro passo. Come muoversi,
un molle crepuscolo, nel passeggio serale.


DUELLI

Immaginate
un fulmine, ma quieto.
E incrini lento: curva prolungata
lacerazione: su l’immota cerchia di torri
avvinghiata alla citta’.
Immaginate si chiuda il fulmine.
Eterna cicatrice.
Esseri neri a passeggio sulle mura.
Degli alberi sul selciato
cancellata l’ombra.


OPERAIO

La stanza, il nitore, la penombra
della cifra: e solo leggere il quadrante:
come un prato.
E’ tempo; e tutto e’ necessario.
Sono i calmi
meriggi della merce’. Tu
fletti naturalmente
nella misurata foresta della macchina.


EPPURE

Per gli incolori
che non hanno canto
neppure il grido,
per chi solo transita
senza nemmeno raccontare il suo respiro,
per i dispersi nelle tane, nei meandri
dove non c’e’ segno, ne’ nido,
per gli oscurati dal sole altrui,
per la polvere
di cui non si puo’ dire la storia,
per i non nati mai
perche’ non furono riconosciuti,
per le parole perdute nell’ansia
per gli inni che nessuno canta
essendo solo desiderio spento,
per le grandi solitudini che si affollano
i sentieri persi
gli occhi chiusi
i reclusi nelle carceri d’ombra
per gli innominati,
i semplici deserti:
fiume senza bandiere senza sponde
eppure eterno fiume dell’esistere.


DOVE

Forse si rompeva la luce
forse eri stanca,
non ci parliamo da tanto,
chiuse
a noi le cattedrali dell’ordine;
solo rotte musiche
del sottosuolo, i rari
sussulti dell’aria,
dove adagio muovono i nostri passi.


CONFLITTI (I)

Fuggiva la luna inseguita
dal nero manto,
gridava alto da squarci
muta vela invocante
pupilla umana a liberarla.


UTILITA’ DELLE RANE

Apprendemmo cadenze
e saziata l’eterna fame,
ascesi al millesimo
piano, da cubi scrutare
rane nei rigagnoli arrampicarsi
a rozzi cieli
donde minacciare noi del millesimo,
allo scendere della cena,
da volubili lumi,
l’angelo quotidiano
cantarci l’inno del tepore di rane
allevate in rigagnoli:
civile cibo umano, senza tanto rumore.


ANAGRAFE

Chi conosce il seme coperto, i girasoli
sotto la luna, i pallidi. Le sbarre
che abbiamo chiuso. Lo zero.


CIBO

Mangiamo, succhiamo, a miliardi.
Canta la musica verde
delle bocche che maciullano; i curvi monti
degli ossi spolpati; l’ansare
di chi vorrebbe.
Ascoltate quieti
il tritore delle mascelle vuote, nel tintinnare
della moneta.
I pianeti
non possiamo berli. Li recinge e governa,
nella superiore bilancia,
l’ombra del foglio sottile
che vola da polo a polo
sulle bocche umane avvinghiate
alla crosta.


NON S’INNAMORA

Non si puo’ dire dove siamo stati. Timbri delle vie
s’accendevano
e morivano, tra ruderi
si scorgevano una mischia, dove l’arancio
assaliva
per irrompere nel grigio
lungamente disteso, grattacieli
sventrati eppure giganti
nell’invadere la mente, morti steli
di una passione.
Abbiamo costruito
l’oggetto che pensa e prevede:
non piange,
non ride, non s’addormenta. Genera.
Non s’innamora.
Cenerentola non ha incontrato questo principe.


I GOVERNATORI

Il carpentiere non li scorge: ne’ sta bene
che li incroci.
Il nome sta scritto, gli ordini
sono alti. Che file lunghe inermi
a radunare gli attestati! Solo alcuni lo fanno.
Si sa che lo fanno per noi;
ne’ s’addormentano: cingono
il caldo globo.
Noi ci fidiamo. Non diciamo
perche’. Non li abbiamo chiamati,
non si puo’ interrogarli. Ma siamo
nel giro, si sa come accadde:
i secoli dell’incendio,
la prima la seconda sterminazione,
e la grande regolazione del cibo, quando
due stemmi si deposero sul globo.
Restano macchie, e inni.
Non si dice ai bambini,
non e’ il caso. I governatori sono calmi.


TESTIMONIANZA

II dito sulla bocca
premendo, l’insanguinato
ucciso:
vedemmo, oh come vedemmo.
Sull’assassinato,
in sera di primavera, il dolce bisturi calmo.


DA DESERTI (I)

Scivolavano in brandelli, oggetti semoventi
iridati di pupille, abbracciati
da lenzuoli in fiamme, anelati dal vento:
crollando
si sgranavano barbagli d’identita’,
insanguinati grumi di linguaggi.
Da sommi cieli, olimpico il canto della macchina intelligente.


DA UN VERBALE

Non so possa dirsi
se un cadere
di rintocco stordito. O
un lontano fumo.
Non c’e’ macchia:
un sospirare rozzo, non ho preso la targa,
dove l’autobus aggirava l’angolo.
Non si vedeva il nome.


UNO SQUILLO A VOLTE

Gireremo nei dintorni, le mani
a scostare siepi. Non dovete
sorprendervi.
Nei lunghi seni della pianura tra folle
d’erba scorgono contadini aggirarsi, le falci
curve, affilate, asteroidi
crollate sul campo.
Levarle alto, lentamente
fletterle sugli steli
del lungo prato, fino al verde sangue
della rescissione. Gli steli
s’abbandonano franti,
le braccia mortalmente stanche.
Lontani contadini
scrutano da nidi di colli.
Dubbio
se riuscira’ a incontrarli, poiche’ il sole
precipita. Solo da gioghi
sembra udire una banda: uno squillo appena.


DA DESERTI (II)

Quelli che, quelli che non dicono, o
esistono scanditi
dal silenzio delle bombe: arruffate
giraffe in corsa.
Non si sa se respirano,
o dormivano, o si stringono
congiunti o ridevano
bevendo: ora solo fiato
di caccia umana.


ROSSO

Ci congiungiamo a morsi: come colmo d’ansia
e’ il canto spiegato dell’alleluja. C’inseguiamo
per vicoli strani: lo mormorano le vegliarde
elemosinanti ai bordi dei marciapiedi, le autostrade in fuga
sulla pellicola della terra,
le folle che assediano le stazioni…
Sulle fronti solo, vendicatore s’asciuga un rosso rivo.


OZI (II)

A ginocchi serrati, su cordigliere
di grattacieli, siede il silenzio ovale
a lisciarsi i capelli.
Avvinti alla peluria della terra, ognuno,
nella sospirata corsa, un istante
l’abbraccia senza saperlo.


CANTO DELL’EDUCAZIONE

Non si vide levarsi in volo le mosche.
Si mangiava regolarmente
in piedi, le narici in silenzio. E il grande sonno
ascendere dall’unghia, adattarsi il sesso, come
dall’uno all’altro polo
la ghirlanda delle autostrade.
Tale dolce zuppa di cane
sulla tiepida tovaglia.
C’e’ un organo nella chiesa.
Non saprete mai
che dolcezza spande
a incantate formiche, vocate
a perseguirsi nella rupe dell’altare.
E un passo d’ape: cosi’ calmo, lento, inesorabile.


AUTUNNI

Franto e’ l’angelo imperiale. Non tuona piu’
l’incrociatore all’alba, i palazzi come orpelli immobili.
Salvo l’irrequieta domanda:
non so se hai visto le rosse torpedini;
uguali a brace nella deserta stanza, dove assorto
canta il suo desiderio il crepuscolo.


AGIRE, CONTEMPLARE

II brusio dell’umano
all’albore come diventa totale clamore
nell’assorta materia; il filo selvoso dove scatta
il brivido del congiungersi; o vagare
il dito sulla fronte, e se puo’ esserci tempo
di guardare il mare senza partire:
l’urlo senza vederlo, il suo
assedio ai monti inauditi,
disperso nelle cosce
di bruma,
umido canto universale,
la solitudine,
le rughe dell’alta sua fronte.


STRANIERI

Un’ora, dimessa la bilancia, solamente
dare: svendersi.
Dubitare della quota.
Erano ceruleo smalto
le magnolie, nel giardino
che scrutavo dalle strette
imposte serrate. Solo che l’altro
era inutile cerimonia.
Stranieri: all’orecchio lo mormorava
una sottile, ostinata indifferenza.


LA GRANDE PRATERIA

Cosi’ si traversa la grande prateria,
gli urli sono lontani, un’utile brezza
li decompone in vili scorati sussurri. Sulle schiume
lento s’innalza celeste
un depuratore. Desalina
le lacrime. Il treno,
non c’e’ tempo, fugge.


UN MOMENTO

E un istante svegliarsi sfiorando il capo
alla terra, lisciando
gli arricciati capelli, gli infiniti insetti
che amorosi la mordono.
(“Noi non piu’
ancora c’incontreremo: sii libera
mentre fuggi’ a me. Corri
nel tuo vortice”.)
Esile, sulla fronte sua
scrivere: riposa.


CONFLITTI (II)

Ci sono veli corsari; spezzati promontori che li attendono.
Scialuppe tremanti trascendono le scogliere. Ebbri di
sale, aggrovigliati di penombre, irsuti pesci sciolgono i
loro canti impossibili.
Spandete voi, maree, gli incrostati relitti; a
memoria di chi comanda il tempo e i sospiri.


ISTRUZIONI PER L’USO

Non si puo’ arrossire.
Non si deve piangere. Ne’ oscillare,
o cadere
in ginocchio. Ne’ allentarsi nell’ombra.
Non si deve star
male. Non sta bene soffrire.
Non ditelo alle guardie: sapete,
non e’ adatto sudare.
Non e’ il caso di morire.
Ne’ precipitare
nell’ozio d’invocare un barlume,
o dubitare
di essere gialli,
impallidire di dolore, sbagliare
nell’accoppiarsi.
Deponete le pene.
Educatele se sono
sfrenate, se urlano
dagli occhi di spavento.
Apprendete dall’astrale saliscendi
della borsa. Solo dove ogni video
e’ muto, e dormono i registratori,
le lance degli orologi, i semafori, i pulpiti,
allora soltanto asciugatevi la fronte.


DA UN BLOC-NOTES

E’ tardi, si’ c’e’ un deragliare dove fugge il camion
all’imbraco della galleria. E lampi. Gli esperti
controllano: c’e’ danaro. Si’,
i gomitoli della scarpata, chi e’ crollato nel sonno.
Ma la vita s’allunga,
le costruzioni gia’ s’innalzano, piu’
delle paludi dello smog, anche se
vi sono strane lacrime fuori pista.
Dilatate i sondaggi.
Passeggiate lungo il lago
allora che si e’ stanchi: evitate lo sbandare
in cielo, l’accosciarsi in aria,
dove, certo,
censire si potrebbe il disordine
dei pensieri, dosare
il fungo delle passioni:
se ci fosse tempo.


ARRIVI, PARTENZE

Ricordati, fanciulla. Ricordati
di sbarcare all’alba. I porti sono irti
di grandi uccelli acquattati, le pesanti ali
si allungano sui cavicchi, ombre
dissolte tra fumi. Non temere
i brusii che discendono
dai fanali. Attenta ai gridi. Non potremo,
non ci sara’ nessuna macchina. Le stanze
sono occupate dagli imbianchini.
Scartavetrano
i muri, s’allungano con le braccia, il disordine
frantuma i nostri sonni. I vicini
cosi’ esigenti. Alcuni li vediamo tra i vetri
che si abbracciano. Ricorderai come alte, rosse
sono le stanze. Tutte a tramontana.
Il morire della luna
l’eccessivo grido, non c’e’ ordine. Si stirano
i capelli.
Respira forte, spanditi nella nebbia.
E’ l’umore dei pensieri, le rivelazioni
dell’avvento; anche se chiedono passaporti,
li rivoltano (sai frugando come allungano
mani pesanti).
Non potremo esserci, le nostre albe sono avvinte.
Ci chiamano. Bisogna fare colazione.
Aprire le labbra.
Tu pero’
t’inoltri, l’alta gamba soda
sul tacco sottile. I netturbini sentono
e si voltano. Non possiamo venire.
Il sonno dorme ancora
pesante sulle palpebre nostre, uguale
a incerto stormo. Non avere
paura d’incedere nella tua alba.


LA BREVE POLVERE

Eppure, luce
ti spandi
scuoti la breve polvere
nostra, scavalchi
astri, nidi di galassie
dilaghi tra bui vortici
incontro ad altri soli.


VI RACCOMANDO

Non c’e’ tempo; fuggiamo
verso il metro’, verso la luna, verso le nevi
dei terminal, verso l’ossesso fuggire
alla morte, si’ ci attendono
a Liverpool, davvero vorremmo
scendere; ruzzolavamo sempre
nella brughiera purpurea, sempre,
l’umido, l’attendere,
l’orlatura la’ dove stanno
le luci degli indicatori: e’ vero, sappiamo
dei temporali, dall’autogrill si scoprono bellissimi tramonti
e i pensieri divampano lenti, come rauco sonno,
sai che dormiamo nelle macchine,
cantiamo nelle macchine, ci srotoliamo
come serpenti in infiniti tapis roulant, anche se
ora non c’e’ tempo, e gli orologi gentilmente
ci sorprendono ogni secondo, ci scoperchiano
acquattati, ci agguantano,
tuttavia,
vi raccomando, non appoggiatevi
tanto ai muri.


TRAVESTIRSI

Sono sospiri: appena. Ma si susseguono: valanghe
di desideri.
Cadono nella rete:
stranamente si travestono: seppure sapendo
che non v’e’ sentiero per sospiri.
Nel freddo nevoso della torre
li guardano fumando.
Sorridono. Alzano la mazza:
scilp! Sibilando
la fanno roteare.
Ma i dubbi sono mappe di reami
abbandonati alla libidine del cercare,
esantemi del viaggio.
Temete le paludi.
Non invocate la buona morte:
non sara’ data.


LIEVE SUDARE

Madre che desti luce
ne’ giammai conosciuta
ignota onnipotente
che stretto abbiamo in catene
e cieca noi disperdi fuggendo,
tu che generi ignara
e serri
inviolati linguaggi,
fragili fiati umani
come amari ti stringono:
respiri di inani, perduti
a dipanare un totale filo,
ansioso, lieve
sudare
di pianeta nel buio.


FUORI ORARIO

Allora che ad ali chiuse,
i caldi ignoti pensieri
reclinanti, alcun
grido, e nessun volgersi,
muta in cielo
dissoluzione di uccelli.
Forse leggerli dal tram
in corsa, sporgersi al cielo. Disdire
l’appuntamento. Scrutare
dove s’allunga la nebbia.


SOLO INVOCATI

Ecco i segni erti, le bandiere fuggenti
nei fangosi crocevia di binari dove
s’alza il canto della lingua:
araldi senza orifiamma, inascoltati
a noi il nostro nome,
solo invocati dalla loro legge.
Uscite quieti
lungo la strada, nel tenero preludio
serale. Non si sa dire
perche’ febbrili
si scatenano campane a stormo.


FUOCHI

I

La sera della sconfitta s’ode
una tromba lontana: pone allori
sulla fronte, lentamente
divarica le labbra nello squarcio.
Sottile un urlo
s’allunga nelle dune
dei visceri. Giuri. T’ammanti.
Alzi il ponte levatoio. Scruti
il sangue. Vivi
perche’ perdesti il tuo sangue. Ti perdi
perche’ non chiedi a te
se chi ti sconfisse e’ nemico
o fratello, e chi ti abbandono’
diserta o chiama.

II

Come s’incrina
la fronte della passione.
questi curiosi corvi senza lacrime.
Come le pianure s’assopiscono
nell’accendersi pallido. Tutti
lo sanno prima di scomparire,
fiumi della vita, stanchi
che bussano.
Non ci sono ritorni a casa. Ne’ vuoti senza silenzio.


OH, RAGIONE…

Le chiavi affidale
a un’ombra un’inclinazione
dell’aria: sepolta sentinella
che frusti dove
ti ubriachi
scendi nell’orda del desiderio;
e ti richiami
all’utile, attizzi
la tua fame, ti obblighi
al dio della misura…


GIUDIZIO UNIVERSALE

E anche in cielo,
nel silenzio senza tempo,
anche Tu
esistente inesistente,
i climi, i pallori,
i desideri nemmeno
nati, le dubbie
mutazioni, le non dubbie
la spada Tua di giustizia
affilata tagliera’, affinche’ in luogo stesso
che non e’ luogo
trionfi
l’ordine della comparazione, come l’oste
la bolletta, il medico la ciotola di sangue,
anche tu Padre
senza il dono del gratuito,
condannato alla giustizia.


PREGHIERA D’ASTRONAUTI

Che non si stanchi la luce
che non si divincoli
che non si stanchi di gemere il sole
non frani
non si laceri il velo
sottile
non si riposi l’ansia,
e il disordine dentro l’ordine
che non s’allontani.


CANZONE DI YOKOHAMA

Venite perche’ bussano. Irrompono dal
grande balcone spalancato. Si sentono
vociare, ridere, indefessi
gendarmi lucenti. S’accapigliano. E siamo circondati.
Imbandiscono
un desco sfavillante che fa orrore.


PACE

Pace ai frantumi agli impazziti;
ai muti muri
mai sorti;
agli uccelli insensati;
alle immobili foreste all’impossibile liberazione del sonno
ai templi dell’irriso desiderio.


DISTANZE

Eppure siamo lontani, dispersi,
non ci saldano
le folli corse nostre
nell’agire,
il sussurro del video, la sete
di comando, il desolato desiderio
di stringerci nella parola.


CRONACHE

Non sapevamo dov’era la sponda,
non trovammo i segni, ma torri, orme
talune sommerse, pensieri
testimoni lasciati dagli inermi, dove
solchi sembravano slargarsi
in vento di passione comunitaria:
sporgetevi sui volti, i libri
contestati, le deflagrazioni della sconfitta:
la’ trascorse, avvampo’
la nostra vita.


SCOMPARSE

C’e’ lento un sapore della morte,
sottile sporgersi all’ultimo lucore:
non c’e’ soffi, ne’ stridere
dell’uscio, non si vede
l’angelo: eppure
l’istante dove fu fissato
in volto, quello sguardo
quanto pagheremmo
durasse.


COME CORSA

Questa luce della parola,
suoni che s’abbracciano stretti
e spandersi nel segno
come corsa su lembo dove mare
non giunge eppure incombe.


EXIT

E un tratto mi perdo, mi sporgo:
da un ciglio stupefatto
i gridi, e duelli, le catene
del conflitto,
l’impallidire degli eventi
l’ondularsi inconoscibile della distanza.
Rari suoni ormai dal labbro, prima del silenzio.


MAI

Una neve cosi’ grande, e lene. Mai
vista spandersi
con tanta ricchezza d’ali,
senza voci, ne’ crolli,
cosi’ nuda.
Si puo’ mirare questo termine
del conflitto, l’inabissarsi
delle coscienze:
apprendere questo lungo canto immobile.

No comments: