Tuesday, November 6, 2007
DIONIGI SOLOMOS:
ELOGIO DI UGO FOSCOLO
Breve il viaggio, faticose le strade, incerto il termine della vita, o cari pellegrini, che soffermaste cortesi per ascoltare. E ciascheduno nel malagevol cammino tragge suo carco dove la mente ed il cuore lo sprona, né, per cadere che altri faccia d’intornogli, si rista dal battere l’ali della speranza lontane, e monta l’erta studiando il passo. Ben avvertito dalla caduta di quei sublimi intelletti, che più presero di quella luce divina, che penetra mirabilmente per tutto il Creato, si fa pensoso, e, secondo a che è inchinevole sua natura, o sente paga l’ascosa invidia, o si sente compreso di stupore, o sente quietarsi finalmente l’inimistà, o lo sospinge a batter palma su palma il generoso dolore di veder scemo di uno, il piccolissimo numero di coloro, che par che nascano a rattemprare gli infiniti argomenti dell’umana miseria. E questo avranno fatto quei buoni i quali, porgendo gli occhi nelle carte, che ci vengono piene delle novelle quotidiane del Mondo, avranno letto, « Ugo Foscolo è morto ». Né questa isoletta, che ha nome di gentile presso gli estrani, e che ebbe la gloria di vederlo nascere nel suo grembo, poteva starsi vituperosa. mente infingarda all’annunzio della morte di lui, il cui rumore, siccome quello della sua vita, farà rimbombo in ogni loco che sia lieto di civiltà, mentre tutte le Accademie d’Italia verranno spalancate per laudarlo e per piangerlo, mentre il fiore della sapienza d’Europa gemerà addormentato per sempre l’uomo che lasciò l’orme perenni. E in tanta fama di lui ben è immaginar verosimile, che altri, per dirlo suo, aiuterassi dell’idioma in che egli scrisse gli alti dettati ; altri della stanza lunga ch’ei fece, ed altri quasi della spoglia mortale, a cui diede il supremo spazio di terra. Ai quali invidiosi argomenti, non senza invidia anche noi, farem risposta quest’oggi, col rimemorare piangendo, essere quel glorioso nato fra noi Ma lo spontaneo commoverci a pubblico duolo non è soltanto debito di riverenza verso chi qua nascendo, e di qua lontano vivendo, ci onorò ; ma se è debito alcuno nella corrispondenza degli affetti, ne stringe un altro, fatto più forte per non esser pari le parti. Imperciocché egli, in quei paesi, i quali parlano un suono e di nomi e di cose magnifico, né per lontananza di luoghi, né per lunghezza di tempi, né per la soavità della lode, che cosi dolce giù stilla nelle viscere umane, e via via stempra l’affezione che per i piccoli oggetti anticamente nudrivano, non mai permise che si spegnesse l’amore che a questa povera aiuola sì fortemente scaldavalo. Che anzi la fe’più bella in tanti versi cantandola, e si piacque di fare attenti a quella gli animi di coloro, i quali maravigliando ascoltavano. Laonde in quel poema che, sotto i velamenti dell’antico favoleggiare, lascia trasparire avere per altissimo scopo suo l’ingentilirsi che fece l’umano genere, ha creduto il magnanimo che mostrerebbe sé diverso al decoro del subbietto, se prima della convalle di Bellosguardo, fra que’ cipressi ove invitava il Canova al rito delle Grazie, non volgeva alla Patria lo salutevole cenno.
Salve, Zacinto ! All’ antenoree prode,
De santi Lari idei ultimo albergo
E de’ miei padri, darò i carmi e l’ossa
E a te i pensier, chè piamente a queste
Dee non favella chi la Patria obblia.
E non si creda che m’abbia posti questi versi sul labbro una vanitosa vaghezza, ma piuttosto l’onesta brama che ha l’uomo naturalmente di ripetere qualche concetto dei grandi pur or caduti, da loro espresso con quei nobili affetti che sol per morte cessarono di sentire, e più ancora un prepotente irrefrenabile istinto di espandere quelle calde parole per l’aere di questa Chiesa, nella quale egli venia giovinetto, inchinando il ginocchio e la mente ai piedi di questo Altare. E nel loco, che nereggia di questo feretro, si sarà forse il fanciulletto fermato a meditare la morte, per ben usar della vita. E qui mi trovo per toccare di questo. Ma gli occhi arguti che mi cercassero in sembiante, quanta speranza io m’abbia nell’animo di dir parole che non siano disconvenevoli alla eccellenza del subbietto, faticherebbero indarno, imperciocché la coscienza dell’esser poco, ne allontana da presunzione. Laonde, con non ambiziosi ma dimessi ragionari, faremo prova di riferire : — come Ugo Foscolo col suo poderoso ingegno, e con quelle tali sue virtù, abbia aiutato la civiltà di un paese già civilissimo. — Le quali cose io non disgiungerò raccontando, ma lascierò, come fecevano in esso, che di compagnia si manifestino.
La natura gli chiuse l’anima immortale in una di quelle salme, che non potevi incontrare per via, senza sentirti vivamente stimolato a domandar di colui che ti passava dinanzi. Credo che a molti qui in Zante si giri ancora per lo pensiero come egli, di tenera età, arrestasse gli occhi degli altri coll’arditezza della sua fisonomia, fatta più osservabile dai forti baleni degli occhi cerulei, colla volubilità delle parole, che egli pronunziava con alto suono, colla rattezza de’ suoi passi, dal che la moltitudine, bieca ne’ suoi giudizi, suol quasi sempre argomentare follia, quasi che desse argomento d’alta saviezza chi lentamente cammina. Delle due cose che si riconoscono necessarie per riuscire eccellenti, cioè grandezza d’ingegno, e studio costante, egli era in sommo grado fornito. E intanto entrare nelle botteghe degli artefici, al come stare attento, il perché domandare, con tutti che poteva interloquire, fisonomie e cose tutte guardare, e a ciò fare da Natura era spinto, chè non ancora egli sapeva dell’usanza di Socrate. Tutti già conosciamo l’efficacia di quelle prime impressioni, e sappiamo di che sieno cagione ove sieno molte, e cadute in intelletto molto capace. Né da altro dipende questo nostro sapere, se non dal numero e dalla varietà degli oggetti che ci vennero, dalla profondità con cui si stamparono, dall’ordine con cui si disposero, dalla mira a cui si diressero. E di buonissima ora in Italia s’accorsero tutti a che era nato, e i primi maestri lo chiamavano a sé, e Cesarotti, e poscia Monti e il Parini, i quali lo incoravano, col consiglio e coll’opera, alla cima ultima di quell’erta tanto scabrosa ai più che, stanchi dell’inutile affaticarsi, si giacciono di qua dal segno. Su via, gli avranno detto, giovane fortunato ; fanne tu fede essere quei vostri spiriti, brage coperte di cenere, che non han d’uopo che d’una mano che le sommova, per scintillare e render fiamma di nuovo. Deh ! presso i giovanetti italiani, fanne fede tu, e gli altri che con te vennero, essere la terra da cui venisti quella medesima che a noi diede la eterna immagine del bello. Fa presto ad essere quel che accenni, e 1° Italia ti darà corona, e noi non ti porteremo invidia, ma ci sarà esorbitante prezzo delle cure che avremo preso di te. Laonde, al parlare dei generosi, toglieasi. possibilmente al desiderio dei mille i quali lui volean vedere, lui udir parlare, lui trattare, mossi dalla rinomanza che di lui correva. Non è da fare le maraviglie della tragedia, colla quale prima uscì nel mondo, se non in quanto difficilissima è quella specie di poetare, e l’età, in cui scrisse, insufficiente. Per il che di leggieri si troverà naturale che allora in Venezia s’alzasse tanto rumore, ed il giovine fatto segno della pubblica ammirazione. Ma per tenermi stretto ai soli componimenti che adeguarono il valore della sua niente, lasciando gli altri che ad altri sarebber laude, dirò. Ma primamente, vi ricorda, o Uditori, nel primo Canto del Poeta, come Achille corra colla mano alla spada, e la venga traendo dalla grande vagina per trafiggere Atride? Vi ricorda, due Canti prima che termini quella sublime Tragedia, come lo stesso Achille stimola col flagello i cavalli, erto sul carro ove ha legato 1° ucciso sposo di Andromaca? Colui che credesse avere tali cose dipinto Omero come laudevoli, ed offerte ad altrui imitazione, mostrerebbe d’avere la mente come aveva gli occhi il Poeta. Bene ha voluto dipingere un uomo, che ha sortito dalla natura sentire iroso, e spinto dalle esterne cagioni a trascorrere in atti, i quali fanno che s’argomenti ciascuno onde correggere le ree inclinazioni dell’animo ; e a ciò ottenere più efficacemente, non pose innanzi un uomo mediocre, ma il più valoroso, il più eloquente di quanti avesse l’esercito. Con simile intenzione a noi pare che Ugo Foscolo abbia dettato l’Ortis. E ià vedesi un giovino in cui natura pose ogni studio, e le virtù che egli mostra si stanno pure in suo cuore, e tali si sarian sempre restate, se il mondo non l’avesse malamente allacciato, ed egli è preda d’una passione che è tremenda come la Morte, finché di misera in più misera condizione di continuo cadendo, la sua mente si fa delira, e butta in terra colle proprie sue mani il carco della vita, dono di Dio, che l’uomo deve tenere, finché a Colui, che glielo diede, piaccia di richiamarlo. Infelicissimo giovine ! Egli lasciò la sua fine, esempio di terrore da lagrimarsi, e le sue virtù da imitarsi. Leggeste com’è preso d’amore per la sua patria, di pietà per il povero, di riverenza per gli uomini grandi e per i propri genitori, di venerazione per le sacre carte, che egli legge anche un momento pria di morire, e d’altissima ammirazione per le bellezze del creato ; affetti tutti che Ugo Foscolo aveva nell’animo, e però caldamente li colorò. Ma è nella Chioma di Berenice ove si legge quanto studio s’avesse fatto, che è la seconda qualità che abbiamo detto essere necessaria onde riuscire eccellente. Là pare che molto addentro egli era nella sapienza Greca e Latina ; e Poeti, ed Oratori, ed Istorici non solamente e’ conosceva, ma giudicava. Onde noi non dubitiamo di porlo vicino all’Abate Conti, come critico ; ed è massima lode di tuttadue quei grandi ingegni, avendo fatto l’uno in assai giovanile età, quello che facea l’altro per rallegrare la mente dalla severa Scienza, che gli die diritto di essere mediatore nelle controversie di Newton e di Leibnizio. E con quel libro aperse alla gioventù italiana nuova strada allo studio de’ Classici, e a sé apparecchiò materia sufficientissima e strabocchevole, onde aiutare il potentissimo ingegno ; lo che notino coloro che credono l’ingegno bastare a sé senz’ altro ; credenza la quale, per essere inimica a quella dei sommi, non può essere che tòrta. E ben è dritto che quella porti seco naturalmente, che ove le loro scritture pervengano ad orecchio civile, questo oda, con sua massima noia, gli errori camminare di pari passo coi suoni. Forse non è vano qui richiamare a quei che professano erudizione, non come mezzo dì sapienza, ma come scopo, la beffa che fece ai dotti che prima dotto, non lo dicevano E l’artificio con cui rispose è affatto simile a quello con cui il gravissimo Leibnizio persuase quei sapienti di Norimberga, che cercavano la pietra Filosofale, di ammetterlo alla loro Società ; e mise in ischiera una filatessa di nomi tenebrosi alla mente, ed all’orecchio durissimi. E anch’egli Ugo sporcò senza misura ogni faccia di quel volume, di nomi ed opere altrui, fingendo di far questo con arte bella : utilissima e sublimissima arte in vero, se non che le scema un cotal poco la maestà il poter fare altrettanto ciascheduno che cercar voglia molti indici di libri stampati, avvertendo il consiglio di non lasciare quell’ordine, ma imitare quel Dio rubatore di bovi il quale, perché venisse fallacemente adormato, studiò i passi stampandoli, nella tornata, retrogradi. A questa burla, con che accompagnò la vera critica, non fu oso veruno dire ch’ei dotto non si mostrasse, bensì che fosse ingegno pericoloso, quantunque quegli eruditi fossero fòri d’ogni pericolo in sulla fine del libro, ove svela aver ciò fatto per ridersi di tutti loro. Grazie per tanto a lui giovinetto rendano gli Italiani che egli abbia calcati quei mezzi onde la vana stupidità s’argomenta di prender l’erta Cattedra della vera e fruttuosa Sapienza. Della quale, o Signori, egli fu norma quando, giunto da per tutto il grido del suo valore, fu chiamato in Pavia a dettare grande Letteratura, e gli ultimi che la professarono erano Villa, Ceretti e Vincenzo Monti. Con un parlamento sull’Origine e l’Uffizio della Letteratura, e in compagnia di un amico pericoloso, di che, nell’atto di mostrarsi, alcuni sogliono compiacersi, voglio dire col nome d uomo eloquente, montò la Cattedra. So che Demostene temeva sul cominciare ; so che temeva Marco Tullio, e non solamente parlando a favor di Milone lo mosse a temere la moltitudine armata, ma eziandio alla presenza di Cesare, per lo Re Deiotaro, lo mosse la troppa solitudine che gli tolse l’animo, e gli sminuì la veemenza del dire. Se Ugo Foscolo temesse, nol so ; ma se ciò fu, tenne la paura imprigionata nel cuore, chè nullo indizio gli fu veduto in sembiante, e lieto di onesta baldezza, incominciò. Era bello a vedere un’aula di sterminata grandezza, tutta piena di genti d’ogni età, d’ogni grado, d’ogni condizione, starsene silenziose come se la vita la fosse muta. Bello a mirare quei sapienti togati, i quai d’età gli eran padri, insieme a due mila alunni starsi intenti al parlatore. Più bello udire dopo due ore, le grida d’applauso e le palme battenti della infinita moltitudine, che erompea fuor delle porte e facea delle strade nuovo teatro d’applauso ; ai quali Ugo si togliea lagrimando di tenerezza, e riducevasi nelle sue stanze, ove giugneano gli ultimi rumori della folla tumultuante. Questa nostra natura che s’illude sì volentieri, e che desidera ardentemente che tutti gli uomini facciano a suo rispetto altrettanto, quantunque abbiano un interesse contrario, quando vede venire a sé le spontanee acclamazioni di tutto un popolo, non trova forze da opporre, e si resta fortemente agitata, pagando così un tributo alla propria fralezza, nell’atto stesso della sua gloria. Ed Ugo che di fama era vago, né so che fama spregiando si posa ben amare virtù, s’abbandonava alla gioia colla stessa voluttà con cui creava, né tentava pur di nasconderla. Che se qualcuno, per essere in lui lo sentire diverso, aquesto si mostrasse difficile, io gli parlerei in tal guisa. Vedi di grazia, uom grave, come nell’ora in cui Ugo ha molle il viso di pianto per lo piacere, il giovinetto che l’ascoltò va passeggiando, e pensa se è atto all’utile Letteratura ; pensa che abbisogna di molto studio ; che deve provvedere con quello ai bisogni della sua Patria ; che deve amare il Vero ; che non deve far la parola strumento d adulazione ; che deve rispettare la Morale, la Religione ; che deve diventar sempre migliore, e così l’utilità dello stato civile, e la sua gloria sono una cosa medesima ; a questo pensa, e già s’infiamma il generoso all’arringo che gli mostra il maestro, e già lo prende colla speranza a rivale. E questo è frutto della maschia Eloquenza ; né, col vero pacatamente annunziato, in quei casi si viene a nulla. Perché ne’ più degli animi s’abbarbica in cupa latebra la inerzia, la quale dolcemente leva l’attività dell’oprare, e, per poter quivi penetrare e cacciamela, bisogna colla parola fervente mettere in moto tutte le nobili passioni. Ed è così che lo squillar delle trombe, e le sinfonie bellicose addormentano nel cuor del forte l’istinto della vita, e corre a spenderla. Ma chi ha quella attitudine all’Eloquenza, porta seco necessariamente che senta in sé ripercossi gli effetti che in altri produce, che è la cosa che a te, uom grave, non piace e che natura assolutamente pur vuole.
Chi avrà riguardo al perchè fu fatta quell’Orazione, forse non troverà molto difettuoso che alla lettura riesca soverchi amento concitata. E già aveva preparato, con più pacata eloquenza, un corso di lezioni nelle quali era sua mente di parlar prima della vita d’ogni Scrittore, desumendone il carattere da suoi scritti, poi dello stato in cui erano le Scienze, e le Lettere, e le Arti a’ suoi tempi ; e dei costumi, e della Religione, e degli istituti politici, e della Filosofia, di tutto in somma, e credo che con tutto questo tendesse a far risultare se lo scrittore era al di sotto, a livello, o al di sopra del suo secolo. Se non che per quello stesso motivo che fu costretto a scrivere contro la sentenza che cacciava la Lingua Latina, la sua Eloquenza non ebbe più campo la cattedra di Pavia, né per ciò sentì consumuta ogni cagione dell’adoprarla, chè molti chiedevano a lui difesa, ed egli difendeva per lo più improvvisando.
Un antico rettore lasciò scritto, che l’Oratore è come un Generale d’armata di cui gl’intendimenti ed i voleri prendono qualità dal suolo su cui si trova, dagli uomini a cui comanda, da quelli ch’egli vuol vincere. La qual similitudine qui ridico perché Ugo Foscolo, improvvisando le sue difese le metteva in atto e perché ci rammenta essere stato capitano e poscia caposquadrone.
Altri si saria forse attristato a questo passo, che le occasioni abbiano tolto ad Ugo di combattere, e a lui il piacere di far orrida l’orazione dei sanguinolenti spettacoli della pugna, i quali in quelle epoche, e per la natura di que’ Potenti, e per quella dei lochi, eran maravigliosi. E certo, ove il correre all’armi non abbia sola cagione la prepotenza dell’ambizioni, aiutata dalla forza, ma una giusta ed importante, è bella ed invidiada la gloria che s’asside sulla bara del prode. Che se altrimenti, non è da mover lamento, chè il mondo non fu scarso giammai di coloro a cui è unica e suprema Virtù quella dei corrucci e del sangue. Ben egli, coll’edizione che diede del Montecuccoli, s’avvisò di far prender spirto novello al coraggio degl’Italiani. Ed ove l’originale era scemo del suo dettato, Ugo poneva il suo proprio, imitando le forme, di che è rigido Montecuccoli, sì bellamente che menti erudite e nello stile e nella Scienza Militare, per notarne le differenze invano s’assottigliavano. E questo partorì lode molta all’ingegno. Ma le note, con che accompagnò l’Edizione, molto vantaggio portarono agl’Italiani, perché le une erano piene di classiche osservazioni sul guerreggiar degli antichi, le altre rigiravansi per le Arti tenute guerreggiando da Federico Secondo, e da quell’altro Guerriero dei tempi nostri. Ma non è che la prima passione della Letteratura non gli ardesse novellamente nell’animo ; e già, chiuso d’ assedio in Genova, cantò quella bellissima Lirica della quale credo non sia altra da porre innanzi, e ben la pareggiano le altre di quel Libretto, nelle quali però non è alcuna che possa venir a gara con un poema, del quale ora favellerò, come quello che gli partorì somma gloria.
Quando una nazione non è ancora incivilita, ed è selvaggia dell’Arte, il Poeta che non è grande, tale apparirà di leggieri se natura non gli fu in tutto matrigna. Allora i miracoli dell’Arte antica non si conoscono, o male, ed egli non ha emuli, di chi tema, e resta facil signore delle menti, e dei cuori che si commovono ad ogni cenno che tu faccia sulle cose che sono ad essi care, come fanciulli che piangendo e ridendo pargoleggiano. Non è uomo che non conosca che Epoca fosse per le lettere quella in cui Ugo scrisse i Sepolcri ; e non di meno in sulle prime i letterati si tacquero, e non ardirono giudicarli. Similemente Michelangelo Buonarotti, disdegnando di porre le orme ove gli antichi poste l’avevano, ruppe il filo del giudicare alla moltitudine degli artisti, che consiste quasi sempre in confronti. Ma coloro che erano molto via dentro all’arte (parlo di quella che l’Alighieri volle sublimemente chiamare quasi nipote di Dio, volendo intendere, parmi, essere sua figliuola Natura, e a questa l’Arte figliuola), coloro dico, ed eram pochi, si sentirono presi di maraviglia, e il primo fu Vincenzo Monti, uno di quei grandi che hanno vergogna di essere circospetti nel laudare le cose degli altri.
Molti daranno la preferenza all’ultimo episodio nel quale i primi intendimenti dell’arte sono d’una grande altezza, ed infiniti sono i personaggi di quella scena, e caldissime le passioni, e differenti gli atteggiamenti. Ma, forse per la natura degli oggetti ch’egli divisa, l’esecuzione non è così palpabile come in quell’altro episodio che vendica il Parini. Quello, insieme a tre o quattro squarci di poesia di Vincenzo Monti, vi sembra la principale anzi l’unica dovizia della poesia moderna. Dopo aver detto essere i cimiteri chiusi, ecco che il suo pensiero si riscalda all’idea che al Parini non fu eretto alcun monumento ; gli s’affacciano alla mente tutti i meriti di Parini. Allora s’accende d’ira e lancia dardi avvelenati contro i Milanesi. Ma che fa perché il lettore sposi quell’ira? Dipinge la sepoltura di Parini orrenda al di fuori, perché, in luogo del sospiro del passeggero, non suona quivi che la querimonia lunga del gufo che svolazza su per le croci, ed il raspare della smarrita cagna. La dipinge più orrenda al di dentro, perché giacendo il Parini in uno dei cimiteri dove si portavano anche i cadaveri dei giustiziati, il Poeta ce lo mostra (oh vitupero de’Milanesi !) insanguinato dal teschio d’un malfattore. Finalmente, e questo è l’ultimo artifizio, veruni occhio mortale non è pio d’un guardo a quella scena, e solamente la luce delle stelle piove là sopra. E quel mettere un cimitero che chiude le reliquie di migliaia d’uomini, in faccia ai cieli seminati di stelle, ha gran virtù di farti entrare in molti pensieri. La figura principale del quadro è la salma del Parini ; e Talia, e il tiglio che mormora, e il capo mozzo del ladro, e il gufo, e la cagna, e la luce degli astri sono accessori parte ideali, parte reali, i quali, maestrevolmente mescolati, ti fanno un’illusione che ti si stampa come la realtà della vita. Precipue qualità di quel Carme ci sembrano la profondità e l’arditezza, e questa aiuta quella ed arrivano qualche volta al sublime. E restringe in poco spazio molte figure, non come fa Omero, ma ome fa Dante, il qual procedere, se nuocerebbe all’Epica dove si narra, giova alla Lirica dove si canta rapiti da forte estro che non ha tempo da perdere. Ma sua natura appare nei transiti, che egli forma frequenti, e i quali trapassano sempre le idee intermedie lasciandole ai lettori. E li forma, come facevano i Greci, i Romani, e quegli Italiani che scrivevano nel trecento, di tenui modificazioni di lingua, e di particelle che acquistano senso e vita diversa secondo gli accidenti, il tempo e il luogo. Parla breve ed assegnato ; ed è franco quel uo poetare, toccando con maestria, di Politica, di Morale, di Arti e di fatti Storici. Loda la virtù degli uomini, e sferza i loro vizi Ove vede nobiltà ed altezza, ivi corre, e, per dar lume al nostro secolo, corre ai secoli dimenticati e fa movere, parlar, operare personaggi, al cui solo nome ti senti compreso di riverenza. E si compiace dell’entusiasmo poetico che trae il mare e l’inferno alla vendetta dell’ingiustizia, valendosi della tradizione delle armi d’Achille. Cerca e vedi, che dir tutto sarebbe lunga fatica, ed a questo luogo non conveniente. Intanto i molti che stavano taciturni, storditi dalla novità, avvertiti dai pochi, cominciarono ad alzare il rumore sì che per quei versi non era che una voce in Italia. Videro essi aperta una nuova strada, e, credendo esser anche per essi, per quella cominciarono loro cammino, ed imitando l’armonia de’suoi versi, ora austera, ora sonora, ora mollissima, siccome dentro gliela dettava l’affetto, e le parole e le frasi, non quelle comuni che son di tutti, ma da lui fatte, bene appare che a loro posta aiutavansi per istrappare al Poeta l’alto secreto. Ma essi non potevano che accrescergli gloria, dando loco al paragone, né avria natura diversamente concesso La mente d’Ugo procedeva dal concetto dell’Arte sua, a quelle esterne apparenze del pensamento colle quali suolsi significare, e però erano con quello naturalmente nate e cresciute ; e la mente de’ suoi imitatori, all’opposito, facendo scala di quelle forme, sperava con quelle di salire alle potenze intellettive di un altro, la cui esterna impronta è, nell’arte dello scrivere, detta stile. E quel Timeo restò deriso per aver voluto spingersi anch’egli, nella sua storia, agli stessi combattimenti, a quelle stesse battaglie navali, ed alle stesse concioni che il mondo ammirava in Tucidide ed in Filisto, ed, usurpando la voce a Pindaro, dissero ch’ei non andava neppure a piedi accanto di un cocchio Lidio. E noi usurpando l’immagine ad Omero, tradotta mirabilmente dal Poeta che vive, daremo la differenza che passa tra loro due e gli altri, che senza voler imitarli, scrivono bene :
Minerva
Li precorre, e Gradivo entrambi d’oro,
E la veste han pur d’oro, ed alte e belle
Le divine stature ; e, d’ogni parte
Visibile, più bassa iva la torma.
Ugo considerò i sepolcri politicamente, ed ha per iscopo di animare l’emulazione— degli Italiani cogli esempi de’ popoli, che onorarono la memoria e i sepolcri degli uomini grandi. E da quei versi suona una corda che ti dice, periture le cose create, ma non per questo t’avezza a spendere il tempo in vani omei, ma t’affretta ad oprarlo in cose utili alla patria. Conciossiachè coloro che non mirano ad un vero religioso, morale, politico, fisico, ed anche scrivono male, non son tollerandi, e non è bene che le Città ordinate abbian per le lor vie di cotestoro, che oziosi, noiosi, e ridicolosi le ingombrano, e saria lo meglio che si mostrassero di loro dispette, cacciandoli con atti di scherno, e non coi fiori, come voleva dei veri Poeti nella sua Repubblica quel mite savio. In questo modo, come già dissi, Ugo Foscolo aiutava la civiltà della civilissima Italia, spezialmente col dire il vero in ogni occasione risolutamente, mentre altri vuole tacerlo o per naturale timidezza, o per reprensibil freddezza, o per turpissima venalità. Laonde egli, acceso di buon zelo, quando vide l’Italia divertire i passi, e posare su cammino non retto, ad essa diede biasimo e mala voce, a quella guisa che il padre castiga il figlio del suo fallire, affinché estrano rimproverare non gli faccia, con più vergogna, scoppiar dalla guancia proterva l’accusa del suo peccato. Con questo intendimento il Petrarca, il Boccaccio, l’Ariosto, punsero le loro Patrie, e, più di tutti, il più grande di tutti loro, nell’anima del quale l’ira s’assise ministra della Giustizia, ed all’Italia gridando,
Seva (le disse) e di dolore ostello,
Nave senza nocchiero in gran tempesta,
Non donna di provincie, ma bordello !
facendo allegri i sublimi rancori, non pur nei lochi, ove speranza è già morta, ma nelle lande del desiderio, e fin anche nei Cieli, ove le faccie di quei Celesti, parlando delle colpe degli uomini, fansi scure. E’ mirava sempre al bene d’ Italia, col pensiero, colla voce, coll’opra, e solo l’abbandonò quando vide che le sue franche virtù potevano essergli rovina certissima. E bene ei fece, perocché quivi alla gloria delle Arti andava mista la vergogna di servitù. Giusto era per tanto che se n’andasse presso gl’Inglesi, uomini veramente gloriosi di Arti, di Sapienza, e d’Armi, e fortunati assai pei loro politici instituti. Ma perché la parola vada immune da ogni equivoco senso, voglio che ogni uditore, benevolo o no, stia securo ch’io volli dire di quegli istituti, onde essi governano sé medesimi. Se non che qualcheduno, a cui non è troppa noia il venirmi ascoltando per lo soverchio di sua cortesia, a questo passo dirà : bene sta ch’egli, liberissimo e da per tutto esaltato, quivi ricovri ; lui vorranno gl’Inglesi per aver dato saggio di sapienza militare, di Arte Poetica, d’Oratoria, di Critica ; ma come farà per la lingua, la quale gli impedirà di apparire quale e quanto ei sia, nei crocchi inglesi, nei quali non si fa troppa grazia al forestiere di far tacere la propria lingua per parlargli la sua? Chi questo avesse detto, ciò saria stato ragionevolmente. Chè come che Ugo avesse volto per gl’Italiani quello strano e passionato viaggiatore, non era atto neppure mezzanamente a parlare la lingua dei nuovi ospiti, e gran danno, che fa apparire di sé medesimo d’assai minore l’uomo, è quel dire le cui forme non escono col pensare, ma dopo Ma e si guardi anche di che ingegno gli fe’dono natura. E di tanto gliene fe’, che in pochissimo tempo, onde apparire in Inghilterra quale era, a sé provide, all’Italia, onde accrescere la sua gloria, ed a me, che seguendolo in Inghilterra, anzi che deviare dal mio proposto, mi fo più colere in conseguirlo. Imperciocché, per non parlare di altre opere, ora che per il mio argomentare non fanno, dico che stampò nella loro lingua una scrittura eruditissima, colla quale annunziava la Visione di Frate Alberigo, data fuori in Roma dall’Abate Francesco Cancellieri, e così s’aperse il Campo e scrisse esteticamente per ben due volte di Dante, e poscia del Petrarca, in ultimo del Boccaccio ; e così gl’Inglesi hanno nella loro lingua, scolpito da vigorosa mano, il secolo padre di Scienza a tutti gli altri. Certo non giace ih basso il nome d’altri, che di quello prima parlarono, ma siccome noi non conosciamo che verun d’essi abbia fatto quanto Ugo, così n’ è caro il sapere come, per opera di Ugo, la fama di quei grandi venisse fatta segno di riverenza agl’Inglesi, con maggior notizia di cagioni. Né era mestieri di minor ingegno del suo per dire condegnamente di quel secolo pieno di varii casi Discordie ed ire : battaglie atroci cogli estrani ; atrocissime fra loro ; piccoli tiranni sparsi qui e qua : grandi fortuna cadere al fondo, miserissime sollevarsi : cittadini cacciati da cittadini che vinceano miseranda vittoria ; Re sorgere, fuggire, cadere ; la Patria lacerlta, e quindi facile preda all’inimico ; Italia fatta teatro di miseria, e in quella confusione di passioni, di leggi, di pugne, sorger quei tre mortali, come scogli in oceano tempestoso.
E a mano a mano scriveva degli altri Classici. Immaginiamo con quale attenzione ascoltavano e leggevano lui, il quale si può dire che parlasse di quegli ingegni coll’affermar che fa credere, avendo mostro coll’opera avere da essi tratto, col potentissimo ingegno, tanto d’aiuto da poterli emulare. Ond’ è che gl’Inglesi avranno meglio sentito che, se gl’Italiani hanno di che invidiarli, questo non è dal lato degli scrittori. Ed Ugo era salito in sommo onore appo i primi ; e udite nom che lo circondavano e gli faceano festa : e Rogers, e Moore, e Campbell, e quel Lord Holland, generosissimo amatore d’ogni ingegno. E in vero, come pochissima cosa è venire in fama presso i mediocri, così al contrario veramente glorioso può nominarsi colui, che tale vien giudicato da altri nobilissimi e reputatissimi. Ma pensate come sia difficile farsi largo in un paese, dove è tanta sapienza, e Letterati che hanno i loro parenti, i loro amici, che parteggiano non solamente per l’onore degl’ individui, ma per quel della Patria, e vedono un forestiere che detta nella loro lingua ; pensate a questo, e, sì pensando, entrate nello studio del Murray ; né siate schivi ; conciossiachè là non ormano uomini di piccola qualità, ma grandi Politici, Guerrieri, Oratori, Poeti, Filosofi, Artisti, Scienziati, Letterati d’ogni maniera, alti Signori e Principi. Entrate, e vedrete offerte agli occhi vostri due figure appese alle opposte pareti, sole e senza altra compagnia d’attorno, che rappresentano in intera pittura Ugo Foscolo e Byron, che si stanno liberamente guardando. E chi fosse stato, per singolar grazia della fortuna, testimonio di quelle tre o quattro volte, in cui quei due in questa vita trattaronsi, forse li avrebbe veduti, non altrimenti che in quelle pitture, ricercarsi vicendevolmente cogli occhi lampeggianti, e da quelli lasciar trasparire, fra gli alti ragionamenti, la secreta compiacenza di somigliarsi l’un l’altro. Che se non fu simile l’uno all’altro senza eccezione, — perché il nome dell’Inglese vivera ab antico nella Storia, e i suoi antenati, che avevano combattuto gloriosamente, ed accompagnato in Inghilterra Guglielmo il Conquistatore, gli lasciarono in eredità il grado di Pari, e le molte e beate dovizie, — non io mi turberò, essendo pronto il vedere come è buon per Ugo che, anche senza queste lusinghe della fortuna, che in chi le mira possono tanto, altri non si ristà dal paragonarli fra loro. E’furon simili per la rapidità della loro fama, per la altezza degli ardimentosi intelletti, per la forza del loro coraggio, per lo amore generoso che portarono a quella Libertà, che è fontana delle civili virtù, per una spontanea, repentina, irrefrenabile, e quaci soverchiante piena di Eloquenza, per l’arguzia con cui bistrattarono e derisero le zucche dei presuntuosi pedanti, per il modo di annunziare, senza temer pericoli, le utili verità, o in lettere o in politica, onde l’uno si fece acre all’Italia, e l’altro all’Inghilterra ; in tutto, in somma, che può far l’uomo riverito e temuto nel mondo, giovandolo, e perfino furono simili (ahi dolorosissima somiglianza !) per aver avuto l’ultimo asilo nella terra medesima Della qual ultima somiglianza devono essere mesti tutti de nostri. Il Poeta Inglese riposa nella terra de’ suoi padri ; il Greco no. Ma a me basta avere ciò accennato a voi cortesi, che anzi credo di aver toccato a molti il segreto pensiero. Non vi parrà egli di averlo quasi riacquistato in quel giorno, in cui lo farete tornare nella sua Patria, risolcando quelle acque che fur fatte solcare a Byron per andar nella sua? Gli consolerete 1 anima, voi, Monsignore Reverendissimo, di novella preghiera su quelle ossa, le quali in questa casa di Dio un dì. coperte delle loro carni infantili, ebber battesmo. Né mi sarà rancura, ma gioia molta, che altri in quel giorno dica sovr’esse maestrevolmente del suo ingegno e delle sue virtù.
Ma intanto che questi egregi me li veggo in pensiero, ma più non sono, vengo sospinto a fissar gli occhi devotamente nei cieli, e lagrimare, perché dopo d’averci, per sì poco momento d’ora, inebbriati di loro, ci abbandonano alla cura del desiderio, perocché morte li ragguaglia al restante degli uomini, a cui sì poco s’assimigliavano. Né alcuno di voi, se discortese ed ignobile affatto l’alma non abbia, dirà essermi io dipartito dall’argomento, se qui mi fermo a sospirare d’un altro. Abbiti un nostro mestissimo saluto, o nopilissimo spirito di Guilford ! Se la ventura ne fosse amica, sì che tu fossi vivo e qui presente, il sol timore di apparire un lusinghiero, a coloro che mi ascoltano, m’avria a pena tenuto dal volgerti repentina la parola, or che discorre sulla virtù degli egregi. Ma oggi che più non odi, libero ma dolente ti parlo, e piango che tu, col toglierti per sempre al nostro affettuoso abbracciare, ti togliesti ai grandi della tua Patria che ti onorarono, ai Letterati che ti pregiarono, a tanti giovani Greci i quali, e di parole, e di maniere, e di generose opere, ti conobbero padre ; alle turbe dolenti, a cui tu quietavi la fame, e finalmente a tutti i lochi per li quali pellegrinando avesti sempre compagna la cortesia. Ben m è avviso di vedere ciascuno di questi benedire l’anima tua, senza mistura alcuna di rio parlare, in passando su quella pietra, che coperse tanto fiore di virtù, di sapere, di gentilezza.
Ed or m’accorgo che col dare meritamente questo piccolo segno di affetto, di riverenza, e di dolore, in verun modo non mi partii dal subbietto, e quasi qualcuno andrà pensando ch’io mi sia entro i limiti di questo artatamente rigirato, ove egli pensi che cresca onore ad Ugo, per esser stato ammirato da un personaggio così distinto. E’ correva lietissimo incontro ad Ugo ad accoglierlo con ogni modo di nobiltà, tutte le volte che da’ suoi viaggi tornava in Londra ; e nei domestici ragionari, onde si facevano lieti, avrà tratto piacere, ammirando quella gran mente, anche per la molta notizia delle cose antiche, di cui Guilford molto piacevasi, la quale dettò ad Ugo la Dissertazione sul Digamma, la più stupenda di tutte, direbbe il gran Corneille, perché al suo autore fruttò tanto da fabbricarsi una casa ; la quale, giustamente, prese il nome della Dissertazione. Colà dentro stava meditando i suoi lavori, e in un’età la quale, avvegnaché non fosse più in sul primo fiorire delle sue forze, lasciava naturalmente vedere dinanzi a sé tre o quattro lustri utili alle Lettere, senza contare quegli anni più che goderono alcuni fortunati che di potenze intellettive abbondavano. E già l’edizione di Dante è in pronto ; e così voleva fare di tutti i Classici Italiani, e procedeva facendo Italico Omero, di cui lasciò nove Libri, et andava limando i carmi l’Oceano, l’Alceo, ed altri ! tra i quali, deh ! si trovasse l’Inno alla Sventura che ci promise ! Perché quell’intelletto, che tanto vide e sentì, avvolgendosi per entro gli umani accadimenti, et le cagioni ed i successi librando, avrà trovato opportuno di dipingere alcuni di quei grandi mortali, che da fortuna furon travagliatissimi. E force vedremmo ritta quivi entro l’ombra di Camoens, o di Torquato, o di Milton, per annunziare che la gloria a pena li consolò dell’avere avuti i cuori macerati dalla sventura, e le guance arse dalla vergogna del chiedere. Ma se creatura potesse spinger lo sguardo ove sta quieto il futuro, e mi dicesse che era serbato ad Ugo di rassembrarli anche per questo, grazie molte e ferventi alla Morte, che ce lo tolse ! E non per tro, dove noi siamo, altri si saria ricordato di Dante, il quale entrò in quella Chiesa della sua Patria affaticato e di disgrazie, e di gloria, e di vita, e da quell’umile fraticello interrogato del suo volere, fissò gli occhi nelle Immagini sante, e risposegli : Pace. tanto egli non fu felice, per l’indole e per la forza delle proprie passioni, tutte lontane dalle battute vie, e questa è la cagione che lo fe’ scrivere :
Avverso al mondo, avversi a me gli eventi.
Egli non fu felice, o Signori ! Chè quel piacere, che costoro sentono in produrre le maraviglie dell’Arte, né l’altro dell’altrui lode, può chiamarsi felicità ; la quale par che consista piuttosto in uno temperamento di sentire, il più che puossi, continuato. E così è che l’umana fralezza viene impedita nel godimento di quella parte di felicità, che può avere quaggiù, Vienne impedita, dico, da quelle stessissime qualità che la fanno apparire maravigliosa, e degna d’invidia. Egli diceva di voler cercar pace in quest’isoletta che egli amò sempre, nella quale ove fosse venuto, e penetrato qua dentro, dove moi siamo altri si saria ricordato di Dante, il quale entrò in quella chiesa della sua patria affaticato e di disgrazie, e di glorie, e di vita ; e da quell’umile fraticello interrogato del suo volere, fissò gli occhi nelle Immagini sante e risposegli : Pace.
Egli sentia fortemente la giustizia, e per essa parlando vera, e ferma, ed alta ragione, non era curante di offendere chi si fosse. Non era punto invidioso di chi accennava di alzarsi, ma l’aiutava. Ben avvisava i piccoli di non mettersi nell’alto pelago dell’Arte, e li cacciava colle grida al lido, da cui stoltamente partivano ; ma quando vedeva lesa giustizia, ecco che le grida si facevano più sonore. Il perché egli, e il mondo a cui sgridava, diremo, per usare un nome almeno dell’altrui scienza, essere due linee Parallele che, in loro correre rapidissime, se in eterno viaggiassero, non s’incontrerebbero mai.
E così, per troppo zelo, qualche volta falliva lo scopo a cui mirava parlando : e sarà colpa di quella sua natura bollente ed esercitata a poggiar alto nell’Arte, che gli fosse difficile assai a chiamarla, in altre cose, a quel mezzo, ove le nostre virtù hanno in costume di riparare. Nell’amicizia era ferventissimo, né la poneva sulla lance dell’interesse. Ma ogni pistola che amico suo riceveva, nonché nelle franche parole che per entro leggeavi, avea un immagine di lui nella figura che avea lasciata il suo suggello. Ed era un leone addormentato sulle sue zampe protese innanzi, in atto di essere preste alle difese. Né rade volte svegliavasi, alzava il capo, guardava attorno e ruggiva. Quel generoso animale, immagine di quell’altro a cui la morte fece muto il ruggito, avea per conveniente Epigrafe le parole, che trovo scritte su quella bara ; uditele perché suonano molto ;
Est, est ; non, non.
Delle quali parole nella bocca di lui non si può dire, come d’altre si disse, che fossero l’Epigrafe della vita sulle porte d’un cimitero. Imperciochè chi l’ha udito parlare ai discepoli, ai Professori, ai Letterati, ai Potenti, e per fino a Colui, che or dorme sotto la gleba di Sant’Elena, gli fu forza fra sé ripetere : Est, est ; non, non. E, nondimeno, facilissimamente a pietà si destava alla vista dell’infortunio, e si accendeva di carità, ma proprio di quella che si leva il vestimento per darlo, pensando poscia alle parole dell’Ecclesiastico : « Non rigettare la preghiera del tribolato, e non volger la faccia dal meschinello. Non affliggere il cuore del meschino ; e non differire il soccorso a chi è in angustia ; e Dio terrà conto della buona opera come la pupilla dell’occhio suo ». Che se siamo contenti di aver qui dette queste parole, perché queste une rispondono alla santità del loco, siamo ancor più contenti in pensare che Ugo Foscolo lasciò scritto nella notizia di Didimo, che la Bibbia era l’unico libro che leggeva sempre da capo a fondo. Da qualche tempo egli era preso da certo fastidio d’ogni cosa, e già la ragione dei medici a noi insegna che il fegato, in cui prima di morire fu leso, viene affranto dall’animo che patisce. Ma quel tendere a giustizia e quel cercar sempre di giovar coll’ingegno, ed anche, se si vuole, quel passionarsi troppo nei mezzi, deve averlo lasciato sol colla vita.
Che se novella dell’ultime sue parole ne fosse giunta, forse da quelle apparirebbe manifesto quello ch’io dico, ed io vi parlerei di quelle, più volentieri di qualunque altra cosa io v’abbia detto fin qui. Ma di questo tanta certezza nella mente mi suona, volgendo il guardo alla sua vita, che mi fa entrare in una immaginazione la quale, come quella che non combatte col verosimile, lasciate che ve la dica. Se qualcuno di quei fortunati ed egregi, che dalla prima fanciullezza lo amarono, e gli furono compagni nella via dell’onore e del sapere, de’ quali credo che parecchi mi stieno ascoltando, (e fra i quali già non fu’ io, di che m’accoro per non aver potuto da lui, come essi, o almen tentato, accendere il mio debole e fioco lume) se qualcuno di loro, dico, alla novella del suo male si fosse messo per lo sentiero che in Inghilterra conduce, e, terre e mari, quanto più si poteva rapidamente, varcando, là fosse giunto, ed abbassato si fosse sul suo letto di morte, per contemplare quella faccia, fata più macra di quello che glielo avessero le forti e generose passioni, e’ m’ è avviso che l’avrebbe udito favellargli in tal guisa :
Povero amico ! Affannoso ti vedo giungere per rivedermi ma l’affanno è il più fedele seguace di ciascheduno su questa terra, e la morte, credimi pure, è l’ottima delle cose. Sono giunto, sullo stremo degli anni cinquantadue, e sono più di quaranta che sento ardere una fiamma nel petto angusto, che tentò più volte di dilatarsi violentemente. Se non temessi che in questi istanti mi venisse a turbare l’orgoglio, direi che questa fosse Giustizia. Fanciullo essendo, mi spingea questa in Zacinto nelle solitudini delle rive, e dei monti a meditare ; mi spinse questa in Italia, e nella piccola casa mi raccolsi solingo. Spesso mi trovò l’alba sulle carte di quelli, che vollero colla mente porger soccorso a’ mortali, né le loro sventure, né le ingiustizie del mondo, che in quelle carte leggevo, mi fe’ cadere il coraggio. E poiché, in leggendo, parevami che questa fiamma si facesse più viva, tutto allegro della speranza d’esser uno del loro numero, abbandonai la mia solitudine. M’affacciai all’operoso ed incessante tumulto della vita, e posi mente. E vidi ; oh vidi quello che la bocca della Sapienza gridava : « Le mani insanguinate dei padri seminarono l’ingiustizia, e ornai la terra non dà altra messe. » Vidi un conflitto d’interessi, di opinioni, e di spade, che non ha posa un momento ; e le leggi, che contrastavano cogl’interessi dell’egoismo, e gl’interessi dell’egoismo, che contrastavano colle leggi. E l’arbitrio delle leggi padre della tirannide ; e V arbitrio delle opinioni padre della licenza, e quindi, — vidi un popolo, che da per tatto ebbe nome di gentile, che diceva di voler libero il mondo, ed uscì fuori col ferro, ed il furore del macellarsi diventò per esso una danza. Vidi un uomo, rapidamente alzato su tutti gli altri, cadere con tale un fragore da fare che lo ripeta l’eco dei secoli. Me pareva che l’uso della parola dovesse equilibrare il potere di chi comanda, e le opinioni dì chi obbedisce, e cominciai ad oprarla, e vidi da una parte i potenti ombrare e turbarsi, e vidi dall’altra cento meschini, i quali mi si piantarono sulla via pertinaci, ingordamente affamati e quasi furiosi di lode, e perché duramente io la negava, m’odiarono sì che tra poco ne rideranno. Vidi la follia, sotto le apparenze della saviezza, nelle case, nelle vie, nei fori, nelle Accademie, nei palazzi, nelle capanne ; e la sciocchezza presuntuosa, e la bontà beffeggiata, e la tristizia temuta, e la fortuna adorata, e la sporca menzogna, e l’ingratitudine, e il tradimendo, e gridai. Vidi le lettere (le sante lettere) non far altro nei più che cambiare l’oggetto delle passioni, e intanto i Letterati nutricarle d’inezie d’impostura, e d’eterni rancori. E da per tutto un subbuglio, una pressa, un tumulto, una faccenda, una guerra che confonde la mente di chi si pone a pensare. Guardavo il Sole, questo maggior ministro della natura, e a quei torrenti di luce che spandea sulle città popolose, e sul deserti mi pareva che fosse l’immagine della santa Libertade da Dio voluta. E vidi — ma la voce mi manca per ridir quanto vidi. Ben ti so dire che tutto quello ch’io vidi, e l’accorarmi, ed il gridare che feci, affrettò lo estinguersi di questa fiamma che mi divora. Né di questo movo lamento, chè anzi, avvegnaché mi senta fiacche le braccia, vedimi, amico, che trovo forza bastante per innalzarle all’Onnipotente, nude come me le creò, e ringraziarlo di questo istante, e pregarlo che mi sia giudice mite.
Queste cose mi pare ch’egli avria dette ; ma non crediate, o uomini che ascoltate, che labbra d’uomo, che or viva, possano pareggiare la forza di quelle sue, ed in quell’ore, nelle quali poi si sarà suo pensiero soffermato alle porte d’Eternità, per la quale le parole degli uomini sono mute. E certo giova sperare, o Signori, che le sue virtù, e l’uso che fece del suo ingegno, e la riverenza che portò alla Religione, avranno fatto dimenticare le sue fralezze all’Eterna Bontà, et l’avrano spinto in fra le braccia
Di Lui, che eterna ciò che a Lui somiglia.
Abbassa gli occhi su questa terra, o spirito fortunato, e mira i cittadini starsi dolenti intorno al vuoto feretro, che ti composero. Sentirono anguste le porte di questa chiesa, per le quali versaronsi compresi di dolore, a pianger, non già di te, che sei degno d’invidia, ma di sé stessi, che t’han perduto Mira questa fronda d’alloro, che certe povere mani hanno spiccato dalla solitaria muraglia d’una chiesa campestre, nell’ora in cui il Sole, terminando la sua luminosa carriera, faceva pensare a te. Mirala, et non sorridere per esser ella fronda caduca, e pensa che, quando eri grave dell’incarco d’Adamo, l’avesti cara anche tu L’ abbiamo posta per onorarti quanto meglio per noi si poteva, per i tanti obblighi che sentiamo d’averti. Ma se vuoi colmarne la misura, siimi grazioso col secondarmi una preghiera che tutti di questo Tempio, giovani e vecchi, poveri e ricchi, nobili e popolani, letterati ed illetterati, privati e magistrati, laici e sacerdoti, tutti, con cenni reitirati, e di mani, e di capo, vedo che mi metton sul labbro. Deh ! spirito immortale ; per quell’amore che tu portasti a tutte le eccelse cose, accostati al trono dell’Onnipotente, gettati colle labbra sullo sgabello de suoi piedi, e, se legge di Paradiso non toglie il lagrimare, pregalo lagrimando e gridando, di mandare alla Patria vicina la Libertà.
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